Ca/1000

Estudio

 

 

proveniente da
Napoli

con
Noemi Francesca

drammaturgia
Enrico Manzo

regia
Luisa Corcione

voci registrate
Lino Musella Giacinto Palmarini

sound design e musiche
Marco Vidino

musiche
Peppe Voltarelli

aiuto regia
Federica De Filippo

le opere in scena sono di
Luisa e Rosaria Corcione

fotografie
Guido Mencari

 

Ca/1000 vuole raccontare la storia di un’anima rappresentando i momenti salienti della vita di Camille Claudel, artista di fine ‘800; dall’arrivo in manicomio a Monfavet, fino alla sua uscita vittoriosamente perdente. La giovane artista, nelle sue opere, è riuscita a scolpire l’animo umano, cogliendone la bellezza ma anche la crudezza e tutti quegli aspetti di cui solitamente non si vuole parlare. Gli elementi che accompagnano il personaggio in Ca/1000 sono rappresentati da un tappeto sonoro di voci, che vengono percepite ora come una presenza assordante, ora come un tenero ricordo. Esse provengono da sculture, da dipinti che rappresentano le sue compagne di viaggio che l’hanno accompagnata per trent’anni della sua esistenza. In scena, si mostra il coraggio di una donna, di un’artista, la forza che l’ha resa profonda ed autentica, ma anche logorata e pazza. Dopo l’abbandono di Rodin, Camille ha lottato moltissimo per affermare il suo talento, in un periodo in cui la scultura era ancora appannaggio maschile, ma ha ceduto alla fine per le contingenze economiche insuperabili per una donna sola di quell’epoca. Per tal motivo in Ca/1000 le vicende dell’esistenza personale e gli esiti dell’opera sono inestricabilmente mescolati e fusi nel comune fallimento.  Molte delle sculture presenti in scena sono il suo diario, il grido disperato di un’anima che passa dalla felicità di un tormentato rapporto d’amore e quello che la legò per alcuni anni a Rodin, fino al rancore e alla rêverie di ciò che non è stato e mai potrà essere.  Si metterà in scena l’esaltazione amorosa, l’illusione della felicità e delle promesse di fedeltà, dell’abbandono, del risentimento, della solitudine estrema, dell’amara consapevolezza di una ferita che mai potrà rimarginarsi.  A lei fu data la dolorosa capacità di “dare forma alle proprie visioni interiori, di strappare all’ignoto che ci abita il salvame del nostro intimo” di cui parla Rilke, nelle Elegie duinesi, brandelli di verità, di un vedere più nitidamente ciò che altri potevano solo superficialmente intuire. Perché sono, le sue opere, sofferenza pagata. Nella drammaturgia, sprazzi di poesia di Paul Claudel, le lettere dei due amanti, un po’ della visione di MOI di Chiara Pasetti.

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